15 Giugno 1994: un giorno che non scorderò mai
15 giugno 1994, un giorno che non potrò mai dimenticare: il Padova tornava in serie A dopo 32 anni e si avverava il mio sogno di bambino. Avevo cominciato a frequentare l’Appiani con mio padre, ai tempi di Nereo Rocco, precisamente dalla stagione 1957-58, quella dello storico terzo posto.
La mia prima partita fu un Padova-Torino 3 a 0 del 27 ottobre 1957 ma la prima che ricordo nitidamente fu un Padova-Inter del 13 novembre 1960. Helenio Herrera era da pochi mesi alla guida dei nerazzurri e doveva ancora capire il calcio italiano. La fossa dei leoni dell’Appiani era lo stadio giusto per l’esame di maturità di una squadra che avrebbe dominato gli anni successivi, in Italia e in Europa. L’Inter passò in vantaggio e il primo tempo sembrava preludere a una sonora sconfitta della squadra del Paròn. In tribuna i milanesi gongolavano: “Dominemo eh”, i loro commenti nell’intervallo. Ma nella ripresa due rilanci della retroguardia del Padova trovarono scoperta la difesa interista e la partita finì 2 a 1, così come la gara di ritorno a San Siro. Quel 13 novembre fu decisivo per il futuro dell’Inter perché da quel giorno Herrera cambiò la disposizione tattica inventando il libero staccato, Armando Picchi, alle spalle dei difensori.
Scusate la digressione… Torniamo al 15 giugno 1994. Avevo chiesto al mio direttore Massimo De Luca due giorni di ferie per assistere – da tifoso, non da giornalista! – allo spareggio di Cremona tra Padova e Cesena, che avrebbe deciso la quarta squadra da promuovere in serie A insieme con Fiorentina, Bari e Brescia. Presi l’aereo da Roma a Milano, quindi un taxi per Cologno Monzese, sede di Mediaset. Da lì con Monica Vanali, amica e collega padovana e tifosa del Padova, incaricata di realizzare il servizio, raggiungemmo Cremona. Un pranzo leggero e poi via allo stadio Zini, dove alle 17 era in programma la partita.
Io la seguii in tribuna accanto ad Angelo Di Livio, che aveva giocato per quattro anni a Padova prima di passare alla Juventus con Alessandro Del Piero. A un metro da me il collega di Mediaset Maurizio Pistocchi, cesenate, con Luca Vialli, cremonese simpatizzante per il Cesena. Sappiamo tutti come andò la partita con il gol promozione firmato da Maurizio Coppola, che ogni tanto rivedo con piacere a cena a Roma. Una decina di minuti prima del novantesimo salii nella postazione di Gildo Fattori, che fece la radiocronaca dello spareggio. Vivemmo insieme gli ultimi emozionanti minuti, poi al triplice fischio di Ceccarini, che sanciva il ritorno in A del Padova, Gildo si accasciò stremato sul banchetto. Quindi si girò verso di me e ci abbracciammo, scoppiando a piangere come due bambini. Un momento che non scorderò mai.
Quindi scesi negli spogliatoi, dove fui annaffiato dallo spumante stappato dai giocatori. Con me l’amico Claudio Ottoni, il capitano, che aveva finito la sua carriera a Venezia qualche settimana prima con una frattura al perone, ma sia pure ingessato non aveva voluto mancare all’appuntamento con la storia. Nel caos dello spogliatoio, tra un abbraccio e l’altro, cercavo la maglia che Nino Nunziata mi aveva promesso, ma era tutto sparito. Alla fine saltò fuori quella numero 5 di Massimiliano Rosa, allora senza nome, e mi presi quella.
Uscii nel cortile, dove trovai Giovanni Gardini, il segretario generale del Padova, al telefono con Demetrio Albertini, ex biancoscudato, che aveva chiamato dagli Stati Uniti, dove si trovava in ritiro con la nazionale di Sacchi per Usa ’94, per fare i complimenti per quel traguardo che lui aveva fallito a Lucca tre anni prima con Di Livio e Benarrivo.
Ero in attesa che il pullman della squadra lasciasse lo stadio Zini per recarmi alla stazione e prendere un treno alla volta di Padova, dove avrei salutato i miei genitori che non vedevo da tempo, quando mi si avvicinò il presidente Sergio Giordani. “Torni a Roma ?”, mi chiese. “No, vado a Padova”, risposi. “Ah, ma hai la macchina ?” disse Sergio. “No, vado in stazione a prendere il treno”, replicai. E lui: “Non sarai mica matto ? Torni in pullman con noi, ci mancherebbe altro”.
Lo ringraziai perché mi regalò una delle più grandi emozioni della mia carriera. Rientrai a Padova con la squadra, chiacchierando con i giocatori, che mi raccontarono le loro emozioni. Mi sentivo come un bambino in un negozio di giocattoli, mi sembrava di vivere un sogno: stavo tornando a casa con la squadra per la quale avevo tifato sin da quando avevo avuto l’uso della ragione, se non prima, in uno dei giorni più belli della sua storia. Ero un privilegiato, forse il primo giornalista a tornare col pullman della squadra che aveva appena conquistato la promozione in serie A. Ma in quei momenti il giornalista non c’era più, aveva lasciato il posto al tifoso, al bambino, all’appassionato di calcio.
Mentre viaggiavamo in autostrada verso Padova, Giovanni Gardini, attraverso il suo cellulare, ci aggiornava su quello che ci aspettava in una città impazzita di gioia.
Al casello di Padova Ovest trovammo i primi tifosi ad accoglierci, quindi una staffetta della polizia ci scortò fino al centro, passando per l’Appiani e il Prato Della Valle invaso di gente in festa. Scendemmo di fronte al Comune e raggiungemmo piazza delle Erbe, dove era stato allestito un palco per ospitare i giocatori. La piazza era inondata di tifosi che agitavano centinaia di bandiere biancoscudate. Da lì all’Hotel Tergesteo di Montegrotto, abituale sede del ritiro del Padova nelle partite casalinghe, dove era stato preparato un buffet a bordo piscina. Ritrovammo anche Piero Aggradi, il Direttore Sportivo, che ci aveva raggiunto in auto da Cremona.
Quella promozione fu il suo capolavoro. Piero è forse la persona migliore che ho conosciuto in tanti anni di calcio: serio, preparato, onesto, scrupoloso. La sua amicizia mi ha accompagnato fino al 2008, l’anno della sua scomparsa. Dopo la festa al Tergesteo, (dove grazie al presidente Giordani, che mi avvertì del pericolo, riuscii a evitare di finire in piscina ad opera di un gruppo di giocatori), la giornata si concluse nel centro di Padova. Verso l’una di notte entrammo con la
squadra al Limbo, un music-bar in via San Fermo che credo non esista più, dove celebrammo la promozione fino a poco prima dell’alba. Quando aprii la porta della casa dei miei, in via dei Rogati, completamente rauco, erano quasi le cinque: l’alba di un giorno nuovo col Padova in serie A.
Ecco perché non potrò mai dimenticare quel 15 giugno 1994.
Daniele Garbo, tra le firme più prestigiose del giornalismo sportivo italiano, orgogliosamente padovano, di nascita e fede calcistica, ha costruito la propria carriera sulle fondamenta degli amori sportivi di sempre: il tennis e il calcio. Lo abbiamo visto — e ascoltato — raccontare lo sport sulle reti Mediaset. Gli abbiamo chiesto di aprire per noi il cassetto dei ricordi, quelli biancoscudati, e siamo orgogliosi di accoglierlo come ospite su questa pagina.